5 MINUTI FA: TRUMP IMPAZZISCE! Il Giappone Abbandona il Mercato Auto USA: Persi 60 Miliardi !

[Musica] [Musica] Nel pieno della retorica del America First, Donald Trump ha lanciato una delle sue mosse più aggressive, una tariffa del 25% sulle auto giapponesi, presentata come uno strumento per riequilibrare una bilancia commerciale ritenuta ingiusta. Ma il risultato è stato tutt’altro che vantaggioso per gli Stati Uniti. Il Giappone, che per decenni ha rappresentato una colonna portante dell’industria automobilistica americana, si è visto costretto a ritirarsi strategicamente dal mercato statunitense, causando un impatto devastante su entrambi i fronti del Pacifico. Riosei Akazawa, negoziatore capo giapponese, ha definito le trattative una commedia tragica. Mentre lui percorreva il mondo cercando un accordo diplomatico, Trump liquidava la questione con frasi sprezzanti come “Posso mandare una lettera al Giappone e boom, pagheranno il 25%”. Queste dichiarazioni non solo hanno infranto ogni protocollo diplomatico, ma hanno anche minato la fiducia nel sistema multilaterale che aveva finora governato i rapporti commerciali tra le due potenze. Il paradosso è che le case automobilistiche giapponesi non sono più concorrenti esteri. Con oltre 60 miliardi di dollari investiti negli Stati Uniti, esse rappresentano oggi una parte integrante dell’economia manifatturiera americana. Toyota, ad esempio, ha prodotto circa un millow 25 milioni di veicoli nel 2023 negli USA Honda, 970.000 e Nissan 770.000. Complessivamente i marchi giapponesi coprono il 40% del mercato americano di veicoli passeggeri e commerciali leggeri. Ma la Casa Bianca ha scelto di ignorare questa simbiosi. Trump ha continuato a dipingere un quadro distorto, sostenendo su Fox News che gli Stati Uniti non ricevono nulla dal Giappone, ignorando volontariamente la complessità delle catene di fornitura integrate. È una narrativa costruita ad arte per giustificare misure protezionistiche che in realtà si sono trasformate in un boomerang. Le tariffe non si sono limitate ai veicoli importati, hanno colpito anche le parti essenziali per la produzione interna, come motori trasmissioni e sistemi elettrici provenienti dal Giappone. Di conseguenza, le fabbriche americane, anche quelle made in USA, hanno visto i costi di produzione salire alle stelle. Il prezzo medio di un suvibrido o di piccole dimensioni categoria dominata dai brand giapponesi è aumentato di oltre 4.000. Per milioni di famiglie americane questa non è solo una tassa commerciale, è una tassa sulla sopravvivenza quotidiana. Il rallentamento della domanda non si è fatto attendere. I consumatori, di fronte all’impennata dei prezzi hanno posticipato gli acquisti o optato per modelli più vecchi, meno efficienti e con consumi maggiori. Questo ha vanificato anche gli obiettivi ambientali nazionali. Mentre il governo cercava di incentivare l’elettrificazione del parco veicoli, il colpo inferto all’offerta giapponese, storicamente leader nelle tecnologie ibride, ha creato un vuoto che le case americane non sono riuscite a colmare nel breve termine. Il danno, tuttavia, non si limita all’industria automobilistica. Colpendo una delle filiere produttive più robuste e internazionalizzate, l’amministrazione Trump ha mandato un messaggio pericoloso. Anche i partner storici possono diventare bersagli e questo ha inclinato la fiducia di molte altre nazioni alleate. Il Giappone, tradizionalmente è uno dei partner più stabili e collaborativi degli Stati Uniti, si è trovato umiliato pubblicamente e quando si umilia a un partner si rischia di perderlo. Tokyo ha reagito con prudenza, ma non senza determinazione. Diversi analisti giapponesi hanno suggerito un riorientamento strategico delle esportazioni, puntando su mercati più prevedibili come l’Europa e l’Asia sudorientale. I primi segnali sono già visibili. Toyota e Honda hanno annunciato un aumento della capacità produttiva nei loro impianti europei, mentre il governo giapponese ha intensificato i colloqui commerciali con paesi del sudest asiatico e dell’Oceania. Ma l’impatto geopolitico più grave è l’indolimento della leadership americana nell’area indopacifica. Mentre la Cina rafforza le sue relazioni economiche nella regione attraverso la Belt and Road Initiative, gli Stati Uniti rischiano di apparire come un partner inaffidabile, pronto a sacrificare gli equilibri a lungo termine per guadagni politici a breve termine. Questa crisi commerciale, dunque, non è solo economica, ma strategica. Il ritiro del Giappone dal mercato statunitense non è stato una vittoria per l’America, ma l’inizio di una disconnessione pericolosa. È la prova che una politica commerciale basata su minacce e unilateralismo può disfare in pochi mesi ciò che è stato costruito in decenni di cooperazione. E tutto per cosa? per alimentare una narrativa elettorale in cui l’America appare vittima dei suoi partner, anziché riconoscere che il potere economico moderno si basa sulla cooperazione sull’interdipendenza e sulla fiducia. In un mondo globalizzato nessuna può prosperare isolandosi o trattando i suoi alleati come nemici. Come disse un ex ambasciatore giapponese a Washington. Quando l’America alza muri contro i suoi amici, finisce per rimanere sola nel momento in cui ha più bisogno di sostegno. Le parole risuonano oggi più forti che mai, mentre Tokyo guarda oltre il Pacifico, lasciando alle spalle un’America che ha scelto di voltare le spalle a sé stessa. L’introduzione di una tariffa del 25% sulle automobili giapponesi e sui componenti importati ha innescato un effetto domino che si è rapidamente diffuso nell’intero tessuto economico degli Stati Uniti. Quello che a prima vista sembrava una misura per proteggere i lavoratori americani si è trasformato in una macchina distruttrice di valore competitività e stabilità interna e il prezzo più alto lo ha pagato proprio la classe media americana, quella che Trump aveva promesso di difendere. Iniziando dalle fabbriche, molte delle quali si trovano nel cuore industriale degli USA, Kentucky, Ohio, Indiana, Alabama. Stabilimenti che producono milioni di veicoli l’anno e che impiegano decine di migliaia di operai sono entrati in crisi. Nonostante la targhetta Made in USA apposta su molti modelli, la realtà è che buona parte dei componenti, soprattutto quelli più sofisticati, come trasmissioni, motori ibridi e chi elettronici, arriva dal Giappone. Quando la tariffa ha colpito queste parti, il costo medio di produzione per veicolo è aumentato di oltre il 15%. A causa della rigidità delle catene logistiche non esisteva un’alternativa immediata. Le aziende si sono trovate a dover scegliere tra due opzioni disastrose assorbire i costi e andare in perdita oppure trasferirli sui consumatori e rischiare un crollo della domanda. La scelta nella maggior parte dei casi è ricaduta sulla seconda opzione e così il prezzo di una Toyota Corolla di una Honda CRV o di una Nissan Rogue è aumentato da 2500. a oltre $4.000, un incremento devastante che ha colpito in pieno le famiglie a reddito medio. Il risultato è stato un crollo delle vendite nel segmento compatto e SUV ibridi, proprio quello che dominava le classifiche di efficienza e convenienza. A catena i concessionari hanno cominciato a registrare cali nelle vendite e aumenti dell’inventario invenduto. Le banche a loro volta hanno segnalato un rallentamento nella concessione di finanziamenti auto. Persino il mercato dell’usato ha subito un’impennata di prezzi rendendo difficile anche per chi cercava veicoli di seconda mano. Nel frattempo gli obiettivi ambientali dell’amministrazione si sono scontrati con la realtà con meno veicoli ibridi ed efficienti sulle strade. Le emissioni medie del parco circolante sono aumentate, un danno ambientale indiretto ma significativo e nel breve termine nessuna casa automobilistica americana è riuscita a colmare il vuoto lasciato dai modelli giapponesi. Ford GM impegnate nella transizione elettrica non hanno ancora una gamma di veicoli compatti elettrici in grado di sostituire i modelli come la Prius o la Civic Hybrid. A livello macroeconomico, il Bureau of Economic Analysis ha registrato una contrazione dello 0,6% nel settore manifatturiero automobilistico nel secondo trimestre del 2024, in concomitanza con l’entrata in vigore delle tariffe, gli stati del Midwest, già segnati dalla deindustrializzazione hanno subito un nuovo colpo. In Michigan le richieste di sussidi di disoccupazione sono aumentate del 12% tra aprile e giugno. A Birmingham Alabama Honda ha annunciato la sospensione temporanea di uno dei suoi turni di produzione. Ma non è finita qui. Le aziende statunitensi che rifornivano gli impianti giapponesi dalla logistica alla componentistica secondaria hanno cominciato a subire contraccolpi. Alcune PMI dipendenti al 70-80% dai contratti con Toyota e Nissan sono state costrette a licenziare personale o chiudere. Persino il mercato azionario ne ha risentito. Le azioni dei principali fornitori americani di componenti auto, come Aptive Lear Corporation e Borg Warner hanno perso tra l’8% e il 15% nel primo semestre del 2024 secondo dati raccolti da Bloomberg. Gli analisti di JP Morgan hanno definito le tariffe una misura populista a danno dell’equilibrio industriale del paese. Eppure la Casa Bianca ha continuato a sostenere che le tariffe porteranno alla rinascita dell’industria automobilistica americana una narrazione slegata dalla realtà. La verità è che non esistono infrastrutture pronte per sostituire in pochi mesi i 3-3 milioni di veicoli prodotti ogni anno dai marchi giapponesi negli Stati Uniti. Ne esistono fornitori americani pronti a rimpiazzare i sofisticati componenti prodotti in Giappone frutto di decenni di knowhow. A questo si aggiunge l’impatto psicologico sui consumatori. In un sondaggio del Pew Research Center pubblicato a luglio 2024, oltre il 62% degli americani ha dichiarato di essere preoccupato per l’aumento dei prezzi delle auto e per la riduzione della scelta nei concessionari. Circa il 38% ha affermato di aver posticipato l’acquisto di un veicolo. Un dato che preoccupa, considerando che il settore automobilistico rappresenta da solo quasi il 3% del PIL statunitense. E in questo contesto la vera ironia è che la tassa sulle auto giapponesi non ha riportato lavoro negli Stati Uniti, ma lo ha distrutto. Il sindacato United Autorkers Uw, pur storicamente critico verso le case straniere, ha espresso preoccupazione. In una nota ufficiale ha avvertito: “Non è questa la strada per rafforzare l’occupazione americana. Servono investimenti non conflitti. Nel frattempo le proteste si sono fatte sentire anche a livello locale. In Ohio gruppi di lavoratori dei fornitori di componenti si sono uniti per chiedere una sospensione delle tariffe. A Hansville Alabama centinaia di dipendenti Honda hanno manifestato contro i turni ridotti. Persino alcuni governatori repubblicani si sono detti contrari a una politica che colpisce direttamente le nostre comunità. Così, mentre l’amministrazione Trump continua a vantarsi di difendere l’industria nazionale, milioni di americani si trovano a fare i conti con una realtà diversa: fabbriche ferme, prezzi alle stelle e meno lavoro. E la classe media, quella che guida, compra e finanzia l’economia reale, è quella che sta pagando il conto più salato. Nel bel mezzo delle tensioni commerciali globali, la Casa Bianca ha trovato un altro bersaglio, il Canada. In particolare, il governo canadese guidato dal primo ministro Mark Carney aveva annunciato l’intenzione di introdurre una tassa del 3% sui ricavi delle grandi piattaforme digitali. L’obiettivo? far pagare una quota equa alle multinazionali come Google, Meta, Amazon e Netflix le cosiddette Silicon Six che accumulano profitti astronomici sfruttando mercati esteri senza contribuire proporzionalmente al sistema fiscale locale. La reazione di Donald Trump non si è fatta attendere. In uno stile ormai consueto, ha bloccato immediatamente ogni forma di trattativa bilaterale e ha lanciato minacce dirette al Canada. Questa tassa è un attacco all’America. Il messaggio era chiaro. Se Ottawa non avesse ritirato la misura, sarebbero scattate rappresaglie commerciali su vasta scala. E così è stato. Il 30 giugno 2024 l’ufficio del primo ministro canadese ha ufficialmente annullato il progetto di tassa digitale, una ritirata che molti media conservatori americani hanno subito celebrato come una grande vittoria di Trump. Ma a ben vedere chi ha davvero vinto, sicuramente non i cittadini americani. Secondo i dati del Fairtax Foundation, le sei principali aziende tecnologiche americane hanno registrato oltre 2.500 miliardi di dollari di utili nell’ultimo decennio, pagando in media solo il 18-8% di tasse, ben al di sotto dell’aliquota fiscale media USA che si attesta al 30%. A livello globale l’aliquota media è superiore al 25%. Questi giganti tecnologici hanno evitato di pagare tra i 10050 e i 250 miliardi di dollari in tasse grazie a una complessa rete di paradisi fiscali e ottimizzazione aggressiva. E proprio quando un paese alleato come il Canada tenta di ristabilire un minimo di equità fiscale gli Stati Uniti, invece di sostenere lo sforzo, lo bloccano con una minaccia. Questo ha avuto un doppio effetto. Da un lato ha rafforzato le grandi tech che già dominano il mercato, dall’altro ha colpito le piccole e medie imprese locali che, a differenza dei colossi della Silicon Valley, non possono eludere il fisco o delocalizzare i profitti. Simwee. Gli americani, nel frattempo, continuano a pagare le loro tasse regolarmente e ora pagano anche i costi indiretti. L’assenza di una tassa digitale in Canada significa meno entrate pubbliche e quindi più spese per il contribuente per finanziare le infrastrutture digitali che queste aziende utilizzano. È come se i cittadini stessero pagando due volte una volta per il servizio e un’altra per i profitti delle big tech. Inoltre la mossa americana ha bloccato un precedente potenzialmente contagioso. Altri paesi come la Francia, l’Italia e la Spagna avevano già introdotto forme di digital services tax, ma in modo coordinato all’interno dell’Oxe. Il Canada rappresentava un test importante per capire se una nazione anglofona è strettamente legata al mercato americano potesse spezzare il monopolio fiscale delle TC americane. La risposta per ora è negativa, ma la questione non è chiusa. Come sottolineano diversi analisti, il Canada potrebbe semplicemente aspettare la fine del mandato di Trump per rilanciare la tassa digitale sotto un’amministrazione più cooperativa. Anzi, alcuni parlamentari canadesi hanno già avanzato l’idea di reintrodurre la tassa retroattivamente con tanto di penali per i ritardi. Uno scenario che potrebbe avere l’effetto opposto a quello sperato da Trump, far esplodere un fronte fiscale congiunto tra il Canada e l’Unione Europea. In questo contesto la vittoria americana si rivela effimera. Mentre Trump si vanta di aver difeso gli interessi nazionali, la realtà è che ha semplicemente protetto gli utili di Amazon e Meta, lasciando i consumatori e i piccoli imprenditori senza difese. Peggio ancora, ha eroso la credibilità americana nel campo della cooperazione fiscale internazionale. Il danno d’immagine è stato notevole. Trudeau prima e Carney poi avevano lavorato per mesi per costruire un dialogo con Washington su questioni digitali e transfrontaliere. Con un colpo solo Trump ha cancellato ogni progresso, lasciando il Canada in una posizione umiliante e gli Stati Uniti come attori poco affidabili nei tavoli negoziali. Al di là della geopolitica, resta un fatto fondamentale. I cittadini americani non hanno ricevuto nulla in cambio di questo braccio di ferro. Nessun taglio fiscale, nessuna riduzione dei prezzi onine, nessuna protezione per la privacy o i dati personali. Solo un nuovo esempio di come la retorica di America First possa tradursi nella pratica in Silicon Valley First. Il paradosso è che tutto questo è avvenuto mentre l’opinione pubblica americana stava diventando sempre più critica nei confronti delle grandi aziende tecnologiche. Secondo un sondaggio Gallup del giugno 2024, il 58% degli americani ritiene che le big tech abbiano troppo potere, mentre il 47% sarebbe favorevole a una tassa sui loro ricavi internazionali. Trump, in controtendenza, ha scelto di proteggerle a scapito della trasparenza fiscale. In definitiva, la guerra digitale contro il Canada ha dimostrato come le priorità dell’amministrazione Trump siano fortemente orientate a soddisfare gli interessi dei colossi economici, anche a costo di isolare gli Stati Uniti dal resto del mondo. E mentre gli alleati si allontanano e si preparano a risposte collettive, l’America rischia di rimanere sola in un campo di battaglia che essa stessa ha creato. Mentre il mondo osservava con attenzione la guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina, un altro fronte silenzioso, ma strategicamente decisivo, si apriva lungo la dorsale energetica del Nord America. Con le relazioni diplomatiche sempre più tese e il trattamento ricevuto dal governo Trump, il Canada ha compiuto un passo storico. Ha spostato una parte cruciale del suo exportio verso la Cina, scavalcando gli Stati Uniti, minando uno degli assi fondamentali della sicurezza energetica americana. Il simbolo di questa rivoluzione silenziosa è il Transmo Mountain Expansion Project TMX, un’opera infrastrutturale da lungo tempo discussa e ostacolata, ma che sotto la pressione degli eventi ha trovato nuova linfa e urgenza. Originariamente concepito per aumentare la capacità del Canada di trasportare petrolio dalle sabbie bituminose dell’Alberta alla costa pacifica della British Columbia, il TMX è diventato di fatto il veicolo dell’emancipazione energetica canadese dagli Stati Uniti. La nuova condotta entrata in funzione nel maggio 2024 ha triplicato la capacità di trasporto dell’Eleodotto originario portandola fino a 890.000 barili al giorno, una cifra paragonabile a quella del famigerato Kiston Kesselle. I numeri parlano chiaro se prima il 90% del greggio canadese era destinato alle raffinerie statunitensi. Oggi quasi il 60% dell’aumento nella produzione è stato reindirizzato verso il mercato asiatico e il primo acquirente la Repubblica Popolare Cinese. Secondo un report dell’Institute for Energy Research IR, la Cina è divenuta nel giro di pochi mesi il principale acquirente di greggio canadese trasportato via TMX. Con una media di 207.000 barili al giorno. Pechino ha superato per la prima volta gli USA come destinazione finale. A livello globale le esportazioni canadesi verso mercati non statunitensi sono aumentate del 60% raggiungendo livelli record nel secondo trimestre del 2024. Tutto ciò è accaduto sotto lo sguardo compiaciuto della Cina che da anni cerca di diversificare le sue fonti energetiche per ridurre la dipendenza dalle rotte mediorientali più esposte a conflitti e instabilità. Acquistare petrolio da un paese G7 con istituzioni stabili e grande capacità produttiva rappresenta un colpo da maestro nella strategia di lungo termine di Xijin Ping. L’ironia è devastante. Mentre Donald Trump si vanta sui social di dare una lezione alla Cina e impone dazzi su centinaia di prodotti cinesi, le sue politiche hanno regalato a Pechino un accesso privilegiato a una delle fonti energetiche più sicure del pianeta. non per merito della diplomazia cinese, ma per colpa della miopia geopolitica americana. Tutto è iniziato con una frase apparentemente innocua, ma intrisa di arroganza: “Non credo ne avrò bisogno”. La risposta di Trump alla domanda si avrebbe esteso la scadenza del 9 luglio per nuovi dazzi contro il Canada. Quella battuta pronunciata durante un’intervista a Fox News è diventata l’emblema di una dottrina che ha umiliato gli alleati e messo a rischio equilibri consolidati. Il Canada, storicamente il partner energetico più affidabile degli Stati Uniti, si è trovato trattato come un nemico economico. Le minacce di rendere il Canada il 51º Stato americano, le pressioni commerciali e la retorica aggressiva hanno spinto Ottawa a cercare sbocchi alternativi. La strategia non era solo economica, ma anche politica. Dimostrare che il Canada poteva sopravvivere e prosperare anche fuori dall’ombra di Washington. Il CEO di Cenovus Energy, una delle principali compagnie petrolifere canadesi, ha dichiarato a Reuters: “Non potevamo più permetterci di dipendere da un cliente unico e imprevedibile. Dovevamo aprirci al mondo e così è stato.” Le raffinerie statunitensi, in particolare quelle del Midwest, che per decenni si erano adattate a trattare il petrolio pesante dell’Alberta, ora si trovano in difficoltà. non possono facilmente sostituire il greggio canadese con altri tipi di petrolio senza costose modifiche agli impianti. L’America paradossalmente continua ad aver bisogno del petrolio canadese più di quanto il Canada abbia bisogno del mercato americano. Ma con il TMX operativo e la Cina pronta a comprare Ottawa ha acquisito un nuovo potere contrattuale e Washington lo ha perso. Questa vicenda rappresenta un caso da manuale di come l’isolazionismo e il nazionalismo economico possano ritorcersi contro chi li pratica. Nel tentativo di rafforzare la posizione americana nel mondo Trump ha minato uno dei pilastri strategici degli Stati Uniti, la sicurezza energetica continentale. Non solo, ha anche reso l’America più vulnerabile, perché nel momento in cui le forniture globali diventano più incerte tra guerre in Medio Oriente, crisi del Mar Rosso e instabilità africana, avere un partner affidabile come il Canada era un vantaggio competitivo inestimabile. Ora quel vantaggio è stato dilapidato e a beneficiarne è stata proprio la Cina il grande rivale geopolitico degli Stati Uniti. In un mondo sempre più multipolare dove le alleanze contano quanto le risorse Trump ha consegnato una leva strategica nelle mani di Pechino. Senza combattere una sola battaglia, senza spendere un solo missile, la Cina ha ottenuto ciò che nessuna manovra diplomatica le aveva mai garantito accesso diretto e stabile al petrolio nordamericano. Mentre il Canada sorride e firma nuovi contratti con l’Asia, l’America resta a guardare isolata dalle sue stesse scelte. Una lezione che il futuro presidente, chiunque esso sia, dovrà tenere bene a mente. Quando si parla di conflitti commerciali, nessuno si aspettava che la guerra dei dazzi tra Stati Uniti e Cina potesse raggiungere livelli così drammatici. Eppure, sotto la guida del presidente Donald Trump, Washington ha varcato una soglia che in passato sembrava impensabile, un’imposizione tariffaria totale del 104% su quasi tutti i beni cinesi importati. Una mossa estrema definita da molti economisti autodistruttiva che ha scatenato reazioni a catena in tutto il pianeta. Il calendario della tensione parla da solo a febbraio 2025 un primo incremento del 10%, a marzo un altro 10%. Poi quasi senza preavviso una nuova impennata al 34%. Infine l’annuncio che ha fatto tremare i mercati un ulteriore aumento del 50%. Tutto questo mentre Trump affermava che si trattava di una punizione necessaria per contenere l’influenza di Pechino e proteggere l’industria americana. Ma a che prezzo? Il primo impatto si è visto nei portafogli dei consumatori. Un giocattolo da $20 è arrivato a costare 40, uno smartphone da 400 è salito a 800 e per quanto riguarda le automobili l’effetto è stato ancora più devastante. Alcuni modelli prodotti in Cina o con componenti chiave cinesi hanno registrato aumenti di prezzo fino a $12.000. un vero e proprio shock per il mercato automobilistico americano. La Cina non è rimasta a guardare. Come contromossa, Pechino ha imposto dazzi del 34% su tutti i prodotti statunitensi. Ma il colpo più strategico non è arrivato dalle tariffe, bensì dalle terre rare. La Cina, che controlla fino al 90% della produzione globale di questi materiali indispensabili per tecnologie avanzate, dai chip ai radar militari, dalle batterie per veicoli elettrici ai dispositivi per la visione notturna, ha annunciato severe restrizioni all’export. D’ora in avanti tutte le aziende americane dovranno ottenere licenze speciali per acquistare terre rare dalla Cina e il processo di approvazione è volutamente opaco, lento e imprevedibile. Di fatto si tratta di un embargo mascherato e il risultato è stato immediato il panico nei mercati globali. La borsa di Hong Kong ha perso il 13% in una sola notte, il crollo più grave degli ultimi 30 anni. Lo Shanghai Composite è sceso del 7% bruciando oltre 500 miliardi di dollari di capitalizzazione. Wall Street ha seguito a ruota in soli 3 giorni. L’indice Dow Jones ha perso il 12%, il Nasdaq il 15%. Gli investitori hanno cercato rifugio nei Treasury Bonds, nell’oro e nei mercati emergenti lontani dal conflitto. Secondo alcuni analisti di Morgan Stanley, questa guerra commerciale ha superato i confini del tollerabile. È una terapia d’urto che rischia di uccidere il paziente e il paziente, in questo caso è l’intera economia globale. Dietro lo scontro si nasconde una verità inquietante. Le due maggiori potenze economiche del mondo non sono più semplicemente in disaccordo, sono entrate in una spirale di antagonismo sistemico in cui ogni misura ha una ritorsione e ogni concessione è vista come una debolezza. E nel mezzo di questa escalation ci sono miliardi di persone, lavoratori e consumatori che ne subiscono le conseguenze. La posta in gioco è alta. Per Trump l’obiettivo dichiarato è riportare la produzione negli Stati Uniti, rilanciare l’industria manifatturiera e ridurre la dipendenza dalla Cina. Ma i risultati sono stati ambigui. Alcune aziende, per evitare i dazzi, hanno delocalizzato la produzione in Vietnam, Messico o India, non certo negli USA. Altre, come Apple o Tesla hanno negoziato esenzioni o accordi speciali, ma per la maggior parte delle PMI americane che non hanno la capacità di modificare in fretta le proprie catene di fornitura, il danno è stato enorme e intanto la Cina si sta ristrutturando. Ha stretto accordi con la Russia per le materie prime con il Brasile, per la soia, con l’Iran, per il petrolio. ha aumentato gli investimenti nella Belt and Road Initiative e rafforzato la cooperazione con l’Africa. Sta costruendo, passo dopo passo, un ordine economico parallelo, resiliente e meno vulnerabile alle pressioni americane. L’Organizzazione Mondiale del Commercio è rimasta impotente. Le regole multilaterali che avevano governato il commercio globale per decenni sono state messe da parte. Le dispute non si risolvono più nei tribunali arbitrali, ma sui social, nei comunicati stampa e nelle minacce dirette. Alcuni osservatori internazionali hanno paragonato questo periodo alla grande crisi del 1929, non tanto per i numeri, ma per la psicologia che lo alimenta paura, protezionismo, sfiducia. Un mondo in cui ogni nazione cerca di alzare muri invece che costruire ponti e dove anche gli alleati più fidati cominciano a chiedersi se sia saggio restare sotto l’ombrello americano. L’Unione Europea, ad esempio, ha convocato d’urgenza un vertice per discutere la creazione di un blocco digitale e tecnologico autonomo. Canada, Corea del Sud e Giappone hanno riattivato canali di cooperazione indipendenti. La Germania ha proposto un fondo comune per proteggere le aziende europee dai contraccolpi della guerra commerciale USA e Cina. E nel mezzo di tutto questo la domanda rimane: quale sarà la prossima mossa? Trump minacerà l’embargo totale. La Cina bloccherà le forniture di microcipo o di silicio, oppure assisteremo, come alcuni sperano, a un momento di crisi così profonda da costringere entrambe le parti a tornare al tavolo. Quel che è certo è che il mondo è entrato in una nuova era, un’era in cui i vecchi equilibri non valgono più e in cui anche il concetto di vittoria è diventato sfuggente. Perché se vincere significa distruggere le fondamenta del commercio globale, forse nessuno vincerà davvero.

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Nel pieno della retorica del “America First”, Donald Trump ha lanciato una delle sue mosse più aggressive: una tariffa del 25% sulle auto giapponesi, presentata come uno strumento per riequilibrare una bilancia commerciale ritenuta “ingiusta”. Ma il risultato è stato tutt’altro che vantaggioso per gli Stati Uniti. Il Giappone, che per decenni ha rappresentato una colonna portante dell’industria automobilistica americana, si è visto costretto a ritirarsi strategicamente dal mercato statunitense, causando un impatto devastante su entrambi i fronti del Pacifico.

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14 Comments

  1. Trump sta facendo danni a non finire, soprattutto per l'economia americana, metterei in una cella tre persone Trump, Putin e la Von Der Leyen e poi buttare le chiavi…….

  2. la preturazione del canada aveva risposto bene. Mentre america il mondo non lavora tante auto che fa. Rimanga nei parchilotti che nessun comprerà iL canada a le complessione che dica bene ciò che fa. A secondo i dettagliati invece la merica vuole tener. Più costi e pagar chi sa quante. Volte no funziona cosi funziona come a parlato il ministro. Canada perche se non c’è lavoro come compra i prezzi di queste auto alluminiati. Tutto costa la terra si sta lisionanto mentre il denaro si sta buttando all’aria trocchi pieni di denari e. Mi vieni a parlar alti prezzi ad presidente america. I dolori ci son saltati a dosso mentre che scopri i prezzi che dovete ppleceguire nel fondo dei lavori auto. Da un taglio. Alcuni momenti che il mondo si sta a fongando di prezzi. ———preturazione teologia significa. La precisazione.

  3. Non penso si possa collaborare con l’ignoranza e l’arroganza! Aspettiamo che suoi stessi sostenitori lo mettano alla gogna! Comunque ogni paese ha il governo che si merita! Hanno voluto sostenere un prepotente nazista e borioso? Adesso muoiono di fame😈

  4. Purtroppo pensavo che il presidente Tramp…avrebbe capito che il futuro non sara mai piu Usa… ma Usa solo un terzo x il mondo… in realtà vedo che vuole fare il texsano…dove le 7 sorelle in pochi anni non conteranno piu … come gli inglesi inperalisti … ledi D aveva capito e spero che i suoi figli guardino al futuro… tutto il resto sono solo porta borse… mia filosofia..😂😂😂😂