Il miracolo e la crisi del Giappone: dalla rinascita postbellica alla stagnazione

Benvenuti nel mio canale. Oggi parliamo di Giappone e in particolare dalla rinascita post bellica alla stagnazione. Agosto 1945 il sole sorge fioco su un arcipelago in ginocchio. Le città di Hiroshima e Nagasaki sono appena state annientate da due ordigni nucleari americani. In pochi istanti decine di migliaia di civili sono svaniti in una nube di fuoco, seguiti da un’onda silenziosa di radiazione che continuerà a uccidere per decenni. Per il Giappone quel doppio colpo è il punto di non ritorno. Il 2 settembre 1945, sull’imponente ponte della corazzata americana USS Missouri, attraccata nella baia di Tokyo, i rappresentanti del governo imperiale giapponese firmano l’atto di resa incondizionata. Il secondo conflitto mondiale è ufficialmente finito. L’impero del Sollevante, che solo pochi anni prima dominava militarmente gran parte dell’Asia orientale, dalla Manciuria alla Birmania, esce dalla guerra completamente sconfitto, occupato, devastato. I numeri parlano chiaro. La guerra ha lasciato dietro di sé oltre 3 milioni di morti, quasi tutti civili. Il 40% delle infrastrutture industriali è stato distrutto dai bombardamenti a tappeto, mentre 4 milioni di case sono state rase al suolo. Più di 9 milioni di persone sono rimaste senza tetto. Le linee ferroviarie linfa vitale di un arcipelago montuoso e frammentato, sono interrotte i ponti i porti inservibili, le centrali elettriche danneggiate. La rete di approvvigionamento alimentare è al collasso. Il riso scarseggia, la carne è un lusso dimenticato. Il mercato nero è diventato l’unico sistema economico realmente funzionante nelle città. In alcune regioni rurali si torna a coltivare a man con utensili del X secolo. A Tokyo, capitale mutilata, le rovine fumanti si estendono per chilometri. Lì dove un tempo sorgevano templi, università e fabbriche, ora c’è solo polvere e silenzio. I tram non circolano, l’acqua potabile razionata, le infezioni dilagano. In mezzo ai detriti, i bambini scalzi vendono sigarette o masticano radici. L’esercito imperiale, orgoglio nazionale fino a pochi mesi prima, è stato smantellato. L’imperatore eroito, pur mantenendo formalmente la sua figura simbolica, rinuncia alla propria natura divina, come richiesto dagli alleati. è la fine di un mondo. Il prodotto interno lordo procapite del Giappone nel 1946 è inferiore a quello del Ghana coloniale. Un paradosso per un paese che solo 30 anni prima aveva umiliato la Russia azarista a Tsushima e sognava di competere con le grandi potenze industriali europee. L’autarchia militare imposta durante la guerra si è rivelata un disastro. Il Giappone non ha petrolio, né carbone di qualità, né acciaio sufficiente e la sua economia pianificata, pensata per sostenere lo sforzo bellico, è incapace di riconvertersi alla pace. Ma è proprio da questa distruzione totale, da questa tabula rasa materiale simbolica che nascerà uno dei più straordinari salti economici della storia moderna. Nel giro di meno di un quarto di secolo questo paese distrutto, affamato e umiliato riuscirà a trasformarsi in una superpotenza industriale seconda soltanto gli Stati Uniti. Le automobili giapponesi conquisteranno le strade del mondo. I suoi transistor, televisori e macchine fotografiche diventeranno sinonimo di qualità e innovazione. Le sue città, un tempo in rovina, saranno tra le più moderne e dinamiche del pianeta. Le sue imprese organizzate secondo logiche uniche altamente efficienti, diventeranno che stadi internazionali. Molti lo chiameranno il miracolo economico giapponese, ma dietro quel miracolo non c’è magia, c’è un intreccio sofisticato e sinergico di riforme istituzionali, influenze americane, capitale umano formato e disciplinato, cultura del sacrificio e una visione industriale di lungo periodo. Senza dimenticare il contesto geopolitico della guerra fredda che trasformerà il Giappone in un pilastro strategico del blocco occidentale in Asia, garantendogli aiuti, protezione e accesso ai mercati. Tuttavia, come ogni in ogni grande parabola, anche quella giapponese conoscerà un apice e un declino. Dopo anni di crescita vertiginosa, alla fine degli anni 80 un’enorme bolla speculativa immobiliare e finanziaria porterà il paese sull’orlo del collasso. Gli anni 90 saranno definiti il decennio perduto, ma in realtà la stagnazione durerà molto di più, alimentata da errori politici, invecchiamento della popolazione e rigidità del sistema economico. Questo episodio del nostro podcast vuole raccontare quella parabola fatta di rovine e rinascita, di disciplinata determinazione e frenesia speculativa, di successo industriale e stagnazione demografica. È una storia che ci parla del Giappone, certo, ma anche delle promesse e dei limiti dello sviluppo economico, della forza delle istituzioni e della fragilità delle economie avanzate in un mondo in rapido mutamento. Benvenuti in questo viaggio dal 1945, anno zero del Giappone, fino agli albori del XX secolo. una storia di ceneri acciaio, di cippa e cemento di uomini e donne che hanno ricostruito un impero per poi vederlo vacillare. Quando il generale Douglas McCarth mette piede a Tokyo come comandante su alleati, il Giappone non è solo un paese sconfitto, è una tabula rasa geopolitica. L’occupazione americana non è una mera operazione militare, ma un progetto di ingegneria istituzionale, sociale ed economica su larga scala, con un obiettivo strategico ben preciso: trasformare un ex nemico in balo del blocco occidentale in Asia nel pieno della guerra fredda nascente. La missione statunitense formalizzata nella SCAP Supreme Commander Ford Alliad Powers si muove lungo due direttrici complementari: smilitarizzazione e democratizzazione. Smantellato l’apparato bellico, viene sciolto l’esercito imperiale, proibita ogni capacità offensiva. Il punto culminante arriva nel 1947 con l’adozione della nuova costituzione giapponese redatta sotto supervisione americana. un documento rivoluzionario in cui l’articolo 9 sancisce il ripudio definitivo della guerra come strumento di politica nazionale. Il Giappone diventa così un’anomalia nel sistema internazionale, una potenza senza esercito che investirà le proprie energie nel mercato anziché nell’artiglieria. Ma è sul piano economico che le riforme americane segnano una svolta duratura. La più incisiva è la riforma agraria. Oltre 2 milioni di ettri vengono confiscate ai grandi proprietari terrieri e ridistribuiti a piccoli agricoltori. Questo intervento ha un duplice impatto. Da un lato distrugge le basi economiche e politiche della vecchia elite aristocratica e militarista. dall’altro stimola il consumo interno, poiché i nuovi piccoli proprietari aumentano la domanda di beni di consumo e servizi. Il Giappone passa da un’agricoltura feudale a un sistema più moderno, distribuito e produttivo. In parallelo, il governo sotto controllo SCAP avvia una progressiva liberalizzazione sindacale. Si incentivano le organizzazioni dei lavoratori, si riconoscono i diritti di sciopero e contrattazione e si introducono standard minimi di lavoro. Sebbene alcune di queste riforme verranno successivamente attenuate per timore del comunismo, esse pongono le basi per un rapporto meno conflittuale tra capitale e lavoro che diventerà uno degli assi portanti del capitalismo giapponese del dopoguerra. Un altro snodo cruciale riguarda la ristrutturazione dell’apparato industriale. Inizialmente gli americani mirano allo sm allo smantellamento dei grandi Zaibatsu, i colossi industrial finanziari che avevano sostenuto lo sforzo bellico. Le holding familiari vengono sciolte, le attività economiche ridistribuite. Tuttavia, a partire dal 1948, con l’aumento della minaccia comunista in Asia, Washington cambia strategia. Da una logica punitiva si passa a un approccio pragmatico e neomercantilista ispirato al cosiddetto reverse course. I grandi gruppi vengono parzialmente ricostituiti sotto forma di keire, conglomerati di imprese legati da partecipazioni incrociate e da una banca centrale del gruppo, ma questa volta senza controllo familiare diretto e con un governo fortemente interventista. È in questo clima di ricostruzione supervisionata che si innestano gli eventi della guerra di Corea che, ricordiamo va dal 1950 al 53. Per il Giappone il conflitto rappresenta un’opportunità inattesa. Gli Stati Uniti, impegnati militarmente nella penisola coreana necessitano di basi logistiche, rifornimenti, munizioni, infrastrutture e affidano tutto questo proprio al vicino arcipelago pacificato. Nascono le cosiddette Special Procurements, contratti diretti tra le forze armate americane e le imprese giapponesi esterni al bilancio pubblico che iniettano nella fragile economia del dopoguerra enormi fussi di capitale. Il risultato è esplosivo. Tra il 1950 e il 1953 il PIL giapponese cresce in media dell’11% annuo, segnando l’inizio del lungo ciclo espansivo che caratterizzerà le decadi successive. Le industrie meccaniche, tessili e siderurgiche rifioriscono, la disoccupazione crolla e le esportazioni cominciano a crescere. L’indice di produzione industriale del 1953 supera del 50% il livello prebellico del 1937 e la prima scintilla del miracolo giapponese. Accanto alla ripresa della produzione, lo Stato giapponese, sotto la guida di tecnocrati formati durante e dopo l’occupazione avvia una serie di riforme strutturali ispirate a un modello di capitalismo coordinato. Il Ministero dell’Industria del Commercio Internazionale, MITI diventa un attore centrale definendo piani industriali, razionando valute estere, guidando l’importazione di tecnologie strategiche e selezionando settori prioritari da sviluppare: la chimica, elettronica, l’acciaio, le automobili. Si delinea un capitalismo di stato intelligente basato sulla cooperazione tra pubblico, banche e imprese private, con un obiettivo comune, l’efficienza, l’export e la crescita senza inflazione. Nel 1952, con la firma del trattato di San Francisco, termina formalmente l’occupazione americana. Il Giappone riacquista la sovranità, ma resta profondamente legato agli Stati Uniti sul piano strategico, economico e culturale. La guerra è finita, l’umiliazione non è ancora dimenticata, ma qualcosa di straordinario sta per nascere. Un nuovo modello di sviluppo capace di coniugare tradizione, modernità, disciplina e innovazione in una corsa che porterà il Giappone dai campi di riso alle linee robotizzate della Toyota in meno di una generazione. Se l’occupazione americana aveva posto le basi per la democratizzazione e la ricostruzione, è negli anni 50 e 60 che il Giappone inizia a delineare una propria traiettoria originale di sviluppo centrata su un modello spesso definito come capitalismo guidato dallo Stato. Un sistema che non si affida completamente alle forze di mercato né si lascia imbrigliare da una pianificazione centralizzata in stile sovietico. piuttosto sviluppa un capitalismo coordinato in cui lo Stato giapponese agisce come regista strategico del processo di industrializzazione. Il protagonista di questa architettura è il MITI, il Ministero dell’Industria del Commercio Internazionale istituito nel 1949. Il MITI non si limita a legiferare o distribuire sussidi. È un vero e proprio centro di comando economico, capaci di definire priorità settoriali, allocare risorse, selezionare i vincitori, razionalizzare i flussi di capitale e favorire l’introduzione di tecnologie avanzate. La strategia è chiara. Individuare i settori chiave per l’accumulazione di capitale, proteggerli nella fase iniziale, sostenerli con credito agevolato e accesso selettivo alle valute estere poi lanciarli con la forza sul mercato globale. Tra i settori prioritari figurano la siderurgia, la petrolchimica, l’industria automobilistica, l’elettronica e successivamente l’informatica. Il MITI utilizza una varietà di strumenti, tariffe doganali selettive, licenze di importazione, incentivi fiscali, fondi di ricerca, pianificazione industriale triennale. Questa strategia genera un circolo virtuoso. Le imprese protette acquisiscono economie di scala, si modernizzano tecnologicamente, rafforzano la competitività e solo a quel punto vengono esposte alla concorrenza internazionale. La logica è darwiniana, ma solo dopo un periodo di incubazione strategica. Come sottolineato dallo storico e politologo Chalmers Johnson nel celebre libro Miti and the Japanese Miracle del 1982, questo approccio non fu una semplice politica industriale, ma una vera e propria cultura dello sviluppo, un modello istituzionale coerente e sistemico in cui il dialogo tra pubblico e privato, tra banche e imprese, tra governo e ricerca scientifica era continuo e profondo. Il risultato un industrial policy myor, come è stato definito, crescita sostenuta, disoccupazione bassa, inflazione contenuta e un posizionamento sempre più aggressivo del Giappone nei mercati internazionali. Parallelamente all’intervento dello Stato si sviluppa un secondo pilastro della crescita giapponese, il sistema dei Keetszu, ossia gruppi industrial finanziari integrati orizzontalmente e verticalmente. I Kir Rezu rappresentano l’evoluzione post bellica dei vecchi Zaibatsu smantellati dagli americani nel primo dopoguerra, ma con una struttura più flessibile e decentralizzata. A differenza dei grandi conglomerati familiari prebellici, i kei Rezzu riti di imprese collegate da partecipazioni incrociate che si controllano a vicenda e mantengono una stabilità azionaria di lungo termine, rendendo le aziende meno vulnerabili a scalate ostili e speculazione finanziaria. Ogni gruppo, Mitsubishi, Sumitomo, Itachi, Toyota, Fujissu ruota attorno una banca principale che funge da fornitori di credito, garante finanziario e centro decisionale informale. Questo assetto ha tre effetti fondamentali: stabilità finanziaria. Le imprese possono pianificare a lungo termine senza l’assillo del rendimento immediato per gli azionisti. Le decisioni di investimento rispondono a logiche industriali più che speculative. Coordinamento verticale. All’interno dei KeZU. Le imprese capofila, tipicamente grandi manifatturiere, sono strettamente collegate ai fornitori e distributori attraverso rapporti fiduciari e contrattuali di lungo periodo. Questo favorisce l’efficienza della catena di valore. Condivisione dell’innovazione. I gruppi condividono risorse per la ricerca e sviluppo, scambiano personale tecnico e coordinano l’adozione di nuove tecnologie. è un ecosistema dove l’innovazione si diffonde rapidamente senza bisogno di mercati perfetti. A rendere sostenibile questo sistema è anche un tasso di risparmio interno elevatissimo. Tra il 20% e il 30% del reddito disponibile viene risparmiato dalle famiglie giapponesi grazie a una cultura del risparmio radicata e un sistema pensionistico allora poco sviluppato. Questi risparmi confluiscono nel sistema bancario che funge da intermediario principale per il finanziamento alle imprese. Il mercato dei capitali resta sottosviluppato. In Giappone sono le banche a decidere dove e come si investe, non la borsa. Il sistema Kezu, unito all’azione del MITI forma così un triangolo strategico. Imprese, Stato e Banche cooperano in modo stabile e strutturato per realizzare obiettivi comuni di sviluppo nazionale, un modello che garantisce coerenza, resilienza e una visione industriale di lungo periodo. Nel cuore di questo sistema industriale pianificato e coordinato si sviluppa una rivoluzione silenziosa che cambierà per sempre la produzione manifatturiera globale. Il Toyota Production System, nato negli stabilimenti di Toyota, sotto la guida di Tahiki, Hono e EI Toyoda, il TPS non è solo un nuovo metodo di produzione, è una filosofia industriale. A differenza del fordismo occidentale basato su produzione di massa, linee rigide e grandi scorte, il modello Toyota adotta una logica lean snella, flessibile. I suoi pilastri sono il just in Time. Ogni componente viene prodotto e consegnato solo quando serve, in quantità minime, riducendo al minimo le scorte. Gidoca, automazione con supervisione umana, dove le macchine si fermano automaticamente in caso di errore, evitando difetti in serie. Kaizen, miglioramento continuo ottenuto coinvolgendo tutti i livelli aziendali, dagli operai ai dirigenti nel processo di ottimizzazione costante. E i junka, livellamento della produzione per evitare picchi e sovraccarichi. Insomma responsabilizzazione dell’operaio. Ogni lavoratore ha il potere di fermare la linea se individua un problema. Il controllo qualità è distribuito, non concentrato. Il risultato è una produzione più efficiente, meno costosa, più reattiva ai cambiamenti del mercato. L’approccio Toyota permette di ridurre drasticamente i costi di magazzino, aumentare la qualità, accorciare i tempi di consegna e rispondere meglio alla domanda globale. Negli anni 60 e 70 il TPS si diffonde prima nel settore automobilistico, poi nell’elettronica, nella meccanica di precisione, né la logistica. viene studiato e replicato in tutto il mondo. È l’embrione di quella che diventerà la LAN Production, il modello dominante della manifattura avanzata tra la fine del Xo secolo e l’inizio del XX secolo. Grazie a questa rivoluzione le imprese giapponesi diventano leader mondiali per produttività, qualità, innovazione continua. Toyota, Honda, Sony, Canon, Panasonic, tutti beneficiano di questo ecosistema industriale che combina tecnologia, disciplina, capitale umano e visione strategica. L’export esplode, le bilance commerciali diventano attive, il Giappone conquista quote crescenti dei mercati americani ed europei. È il preludio al grande boom degli anni 80. All’inizio degli anni 80 il Giappone al cumine del suo slancio, è ormai riconosciuto come la terza economia mondiale in termini assoluti. È la prima potenza industriale dell’Asia con una crescita che continua a sorprendere il mondo. Il modello giapponese, frutto di 30 anni di pianificazione, coordinamento e disciplina, sembra inviccibile. Nel 1989 il PIL giapponese, in parità di potere di acquisto, raggiunge l’80% di quello americano. Un traguardo impensabile appena 30 anni prima. Il Giappone è riuscito a colmare quasi del tutto il divario con la super potenza economica mondiale. Le sue imprese dominano settori chiave: automobili, elettronica di consumo, robotica, semiconduttori, ottica di precisione e meccanica avanzata. I grandi brand giapponesi Sony, Toshiba, Panasonic, Canon, Sharp, Honda, Toyota, Nissan sono diventati sinonimo di qualità, innovazione e affidabilità. Televisori Sony dominano le case americane. Le fotocamere Canon e Nikon dettano gli standard della fotografia mondiale. Le automobili giapponesi si impongono per efficienza, durata, risparmio energetico. La leadership tecnologica giapponese è così marcata che negli Stati Uniti cominciano a circolare timori di un decadimento industriale americano, alimentando il famoso dibattito sul Japan Beshing. Tokyo da città in Maceria nel 1945 è ora la capitale più cara del mondo, simbolo di un’epoca di opulenza. I grattaccieli si moltiplicano, il tenore di vita cresce, i salari sono elevati, la borsa giapponese è la più capitalizzata al mondo. L’indice Nickei 225, che nel 1980 era 6500 punti, raggiunge quasi 39.000 a dicembre 1989, segnando una crescita spettacolare. Sul piano macroeconomico, il Giappone presenta una bilancia commerciale costantemente in surplus con esportazioni che superano largamente le importazioni. Questo squilibrio diventa fonte di tensione con gli Stati Uniti che accusano il Giappone di pratiche mercanti liste e di manipolazione valutaria. Nel 1985 si arriva così al Plaza Accord, un accordo multilaterale tra Stati Uniti, Giappone, Germania, Ovest e Francia e Regno Unito, finalizzato a deprezzare il dollaro e quindi a rivalutare lo yen. Il Giappone accetta di rivalutare la propria moneta per per placare gli alleati occidentali, ma come vedremo quella decisione sarà l’innesco della crisi. L’effetto del plazorde si fa sentire quasi immediatamente. Tra il 1985 e il 1987 lo yen si apprezza di oltre il 50% rispetto al dollaro. Per un’economia fortemente orientata all’export quella giapponese si tratta di uno shock potenzialmente devastante. Le merci giapponesi diventano improvvisamente più care sui mercati internazionali. Il rischio di una recessione exported è concreto. Per contrastare la caduta della competitività, la Banca del Giappone adotta una politica monetaria espansiva. I tassi di interesse vengono abbassati al 2,5%, un livello storicamente molto basso. Il credito comincia a fluire con abbondanza nel sistema finanziario industriale. Le banche, forti dei risparmi interni, delle garanzie implicite dello Stato, concedono prestiti facili a imprese e privati. Il denaro a basso costo alimenta rapidamente due bolle speculative parallele. Immobiliare, i prezzi dei terreni degli immobili, soprattutto a Tokyo e Osaka, crescono in modo esponenziale tra il 1985 e il 1990 il prezzo medio di una casa nella capitale quadruplica. Si arriva al paradosso per cui un singolo isolato nel quartiere di Ginza vale più dell’intero stato del Colorado e il valore fondiario della sola Tokyo supera quello dell’intera California. I finanziari il mercato azionario entra in una spirale di euforia. Il Nike triplica in pochi anni sospinto da un’ondata di leverage, fusioni, speculazione e aspettative irrealistiche di crescita perpetua. I titoli immobiliari e bancari sono i più ricercati con valutazioni che si staccano sempre più dai fondamentali. Il sistema bancario giapponese, fino ad allora considerato prudente, si trasforma in una macchina da credito senza freni. Gli attivi immobiliari diventano garanzie per prestiti sempre più rischiosi in un circolo vizioso di leverage e aspettative di apprezzamento continuo. Le banche prestano contro garanzie immobiliari già gonfiate, convinte che il valore del terreno non possa che salire. Nel 1989 la capitalizzazione della borsa giapponese rappresenta il 45% del valore azionario globale. È la vetta di una montagna costruita sull’euforia, il punto più alto del miracolo giapponese e l’inizio della caduta. Il 1990 si apre con una decisione che cambierà la storia economica giapponese. Di fronte all’inflazione degli asset a rischio di destabilizzazione sistemica, la Banca del Giappone decide di alzare i tassi di interesse nel tentativo di frenare la corsa speculativa. La misura ha successo, la bolla scoppia con violenza. Nel giro di pochi mesi l’indice Nike perde il 50% del suo valore. Gli investitori vendono in massa, le imprese vedono i loro bilanci appesantiti da debiti, contratti su valutazioni ormai crollate. Gli immobili, una volta considerati valori sicuri, perdono la metà del loro valore in 2 anni. I cittadini si ritrovano con mutui superiori al valore reale delle case. Il sistema bancario entra in una crisi profonda. Le garanzie immobiliari su cui si basavano migliaia di miliardi di ien prestiti non valgono più nulla. Le banche sono piene di crediti inesigibili, ma nessuno vuole ammettere. Il governo giapponese, spaventato da un possibile panico sistemico e dalla perdita di fiducia, adotta una strategia del silenzio, non chiude le banche, non impone stress test. non costringe alla salutazione dei bilanci. Si parla di zombie economy, aziende, istituti di credito tecnicamente insolventi continuano a operare tenuti in vita da finanziamenti pubblici e tolleranza regolatoria. Questa scelta dettata da prudenza istituzionale, dalla paura di uno shock sociale, si rivela però controproducente nel lungo periodo. Il capitale non si rialloca in modo efficiente. Le imprese sane faticano ad accedere al credito, mentre quelle inefficienti vengono paradossalmente sostenute. La produttività ristagna, gli investimenti si contraggono e l’economia giapponese entra in una lunga fase di stagnazione. Inizia così il decennio perduto che in realtà durerà ben più di 10 anni. Una fase in cui il paese, pur non conoscendo crisi sistemiche come quella americana del 2008, sperimenta una crescita nemica, defrazione cronica e disoccupazione strutturale nascosta. Il miracolo giapponese si è fermato e nessuno per anni riuscirà a farlo ripartire. Il Giappone entra in una fase che sarà ricordata come il decennio perduto, ma quel decennio si allunga, si trasforma e di fatto si stende ben oltre il 2001, marcando una delle più prolungate stagnazioni nella storia delle economie avanzate. Dal 1991 al 2001 la crescita media del PIL giapponese si attesta attorno al più 1% anno. Un rallentamento drastico per un paese che negli anni 80va a + 4-5% all’anno. La deflazione diventa cronaca e i prezzi iniziano a scendere costantemente anno dopo anno. Questa dinamica apparentemente positiva per i consumatori e in realtà disastrosa per le imprese che vedono margini di profitto erosi e investimenti rinviati in attesa di prezzi più bassi. La politica monetaria perde efficacia. Anche con tassi di interesse prossimi allo zero, famiglie e imprese non prendono a prestito. Non mancano i soldi, manca la fiducia. La Banca del Giappone prova a stimolare l’economia con strumenti sempre più innovativi, ma senza effetti significativi. Si configura quella che l’economista Paul Krugman definirà trappola della liquidità, un contesto in cui la moneta perde la sua capacità di stimolare la domanda. Nel frattempo il debito pubblico esplode. Per compensare la domanda privata assente lo Stato giapponese via politiche fiscali espansive, piani infrastrutturali, sussidi, incentivi, ma gli effetti sono modesti. Nel 1990 il debito era il 60% del PIL, nel 2005 supera il 140% senza che ciò abbia rilanciato stabilmente la crescita. Nel mezzo la crisi finanziaria asiatica del 1997-1998 colpisce duramente anche il Giappone. I mercati emergenti crollano e molte banche nipponiche esposte in Corea, Thailandia e Indonesia subiscono perdite ingenti. Solo nel 2002, con l’arrivo del ministro Takenaka, inizia una vera ristrutturazione del sistema bancario. Ricapitalizzazioni, fusioni, pulizia dei bilanci, ma sono passati più di 10 anni dallo scoppio della bolla. Il danno è fatto e le ferite sono profonde. Alla stagnazione economica si somma un problema più profondo, strutturale, il calo della popolazione attiva. Nel 2005 il Giappone diventa il primo paese al mondo a registrare, un calo strutturale della popolazione totale. È l’inizio di un’epoca nuova. Il tasso di fertilità, già basso dagli anni 70, precipita sotto la soglia di 1,4 figli per donna. L’età mediana supera i 45 anni. Entro il 2020 il 28% della popolazione è over 65. La società giapponese invecchia in modo rapido, è irreversibile. Le conseguenze economiche sono enormi. La forza lavoro si riduce frenando la crescita potenziale. Aumentano in modo esplosivo la spesa pensionistica e sanitaria. Il sistema fiscale entra in sofferenza perché il numero di contribuenti attivi cala mentre aumentano i beneficiari passivi. A peggiorare il quadro è la scarsissima apertura all’immigrazione. Per decenni il Giappone ha mantenuto barriere rigide all’ingresso di stranieri, temendo l’impatto sulla coione sociale e culturale. Solo negli anni 2010 vengono introdotte le prime politiche attive per attrarre lavoratori stranieri, in particolare nei settori della sanità, agricoltura e costruzione, ma è troppo poco, troppo tardi. Anche il leggendario modello giapponese del posto fisso a vita entra in crisi. A partire dagli anni 90 le imprese, le prese con margini più stretti e incertezza, iniziano a introdurre forme contrattuali più flessibili. Il mercato del lavoro si divide in due. Da un lato i lavoratori regolari, assunti a tempo pieno, protetti da sindacati con avanzamento di carriera e sicurezza. Dall’altro una massa crescente di lavoratori non regolari, precari, part-time, freelance, a contratto temporaneo con scarsa tutela, salari più bassi e nessun avanzamento. Nel 2020 oltre il 37% della forza del lavoro giapponese è impiegata in forma non regolare, un dato impensabile 30 anni prima. La conseguenza è una frattura sociale crescente. I giovani entrano nel mercato del lavoro con aspettative ridotte, salari stagnanti e prospettive incerte. Il malcontento aumenta e con esso la la sfiducia nella società meritocratica giapponese. Il Giappone è stato il primo laboratorio sperimentale di una trappola della liquidità moderna. Già nel 1995 la Banca del Giappone porta i tassi a zero. Nel 2001 introduce una prima versione di quantitative easing. Nel 2016 arriva lo healed C control, cioè il controllo diretto della curva dei rendimenti. Eppure l’inflazione non riparte, la domanda interna resta debole e le aspettative di crescita futura si contraggono. Gli strumenti monetari perdono potere perché non agiscono più su una popolazione fiduciosa, ma su una società demoralizzata e invecchiata. Dopo la crisi del 2008, anche l’Europa e gli Stati Uniti si ritrovano a combattere contro gli stessi demoni. Deflazione, stagnazione, tasse a zero, crescita nemica. Molte politiche sperimentate in Giappone vengono adottate altrove. quantitativas, forward guidance, tassi negativi. Il caso giapponese mostra però i limiti della sola politica monetaria. Stampare moneta non basta se le imprese non investono, i consumatori non spendono. Serve un mix coordinato, stimoli fiscali, riforme strutturali, politiche industriali e demografiche. Serve soprattutto credibilità nella crescita futura. Senza aspettative positive, nessun meccanismo economico si riattiva. I problemi del Giappone non sono più esclusivamente giapponesi. Oggi anche l’Italia, la Germania, la Corea del Sud e molti altri paesi si trovano davanti a sfide simili. Calo della popolazione attiva, frammentazione del lavoro, pressioni crescenti su welfare. Il Giappone ha risposto con con innovazione tecnologica e oggi leader mondiale in robotica industriale, intelligenza artificiale applicata alla sanità, automazione dei servizi. In molti ospedali giapponesi i robot assistono pazienti anziani o distribuiscono farmaci. I magazzini sono automatizzati, le fabbriche usano l’internet delle cose, IoT, i treni si guidano da soli, ma come insegna l’esperienza giapponese, innovare non basta. Senza un rinnovamento sociale, culturale e istituzionale, la tecnologia rischia di diventare un palliativo. Servono nuove visioni di coesione, partecipazione, inclusione. Il Giappone non è stato una deviazione anomala della storia economica, al contrario è stato un anticipiatore. È stato il primo paese a sperimentare un miracolo economico postbellico fondato su uno stato sviluppista, efficiente e strategico. una leadership industriale globale grazie a un modello produttivo snello innovativo, una crisi da eccesso di successo con bolle speculative nate da tassi troppo bassi e aspettative troppo alte. una trappola della stagnazione in un contesto di deflazione, invecchiamento e crisi demografica, una trasformazione silenziosa del mercato del lavoro con l’erosione del modello di impiego stabile. Oggi molte economie avanzate si trovano a ripercorrere inconsapevolmente il sentiero giapponese. La crescita non è più garantita. La demograf la demografia pesa, il lavoro cambia, la disuguaglianza cresce e le politiche economiche tradizionali sembrano avere effetti sempre più deboli. Guardare al Giappone non significa copiarne le soluzioni, ma capirne i meccanismi profondi di un capitalismo maturo alle prese con i propri limiti. Il futuro dell’economia non sarà più misurato solo dal PIL, ma dalla capacità di affrontare l’incertezza, gestire la complessità e costruire coesione sociale. Il Giappone ci ha mostrato il possibile futuro del mondo avanzato. Ora tocca agli altri decidere se seguirne i passi o tracciarne di nuovi. Avete ascoltato il miracolo e la crisi del Giappone dalla rinascita post bellica alla stagnazione. Testi e voce di Simone Ena. Se la puntata vi è piaciuta, seguite il podcast su YouTube o dove preferite ascoltare. Alla prossima puntata. Co?

Agosto 1945. Il Giappone esce dalla guerra annientato: Hiroshima e Nagasaki cancellate, milioni di morti, infrastrutture distrutte, un’economia al collasso. Il paese è occupato, umiliato, affamato. Ma da queste rovine nasce una delle più straordinarie parabole economiche del XX secolo: nel giro di pochi decenni, il Giappone diventa una superpotenza industriale, simbolo di efficienza e innovazione. Tuttavia, alla fine degli anni ’80, un’euforia speculativa lo conduce a una lunga stagnazione. Questo episodio racconta l’ascesa e il declino del modello giapponese: una storia di rinascita, boom, crisi e lezioni ancora attuali per tutte le economie avanzate.

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